Le bizzarre sculture di Francesco Pianta

Nel 1959 il piccolo editore veneziano Sodalizio del libro – che pubblicava l’omonima rivista e una Collana di narrativa italiana diretta da Umberto Apollonio – dà alle stampe un piccolo volume dedicato alle sculture di Francesco Pianta alla Scuola grande di San Rocco dal titolo Le bizzarre sculture di Francesco Pianta.

È un libro fotografico con immagini in bianco e nero del fotografo parigino André Ostier (1906-1994), celebre ritrattista di artisti e del jet set parigino, accompagnato da un lungo testo di Mario Praz che cerca di interpretare il ciclo di sculture in altorilievo con figurazioni allegoriche parte del rivestimento ligneo – una ininterrotta panca con alta spalliera – della grande sala del primo piano dominata dalle tele di Tintoretto (1518-1594). Impegnativa e certamente “bizzarra” opera di Francesco Pianta, scultore veneziano vissuto tra il 1634 e il 1692, che vi lavorò tra il 1658 e il 1675 circa.

Praz, che nei suoi studi sul Barocco si era interessato ad alcuni aspetti della letteratura come gli Emblemi già negli anni Trenta, dovette accettare di buon grado l’incarico di scrivere questo testo destinato ad accompagnare le immagini di Ostier, che bene illustrano questo ciclo ricco di complicate allegorie figurate, un unicum nella storia della decorazione lignea italiana. Pensò di farlo riscontrando le sculture del con il testo dell’Iconologia di Cesare Ripa, che, a detta dello stesso Pianta – il quale illustrò il significato di tutte le sculture in una lunga pergamena (lignea) retta dalla figura di Mercurio alla sinistra dell’ingresso della sala – fu il testo di riferimento. Praz non fece però i conti col fatto che Pianta, forse come tutti gli artigiani del tempo doveva essere semi analfabeta, capì e utilizzò a modo suo, diciamo con grande libertà, il testo del Ripa. Praz, il professore, coglie più di una volta lo scultore in fallo, al pari di uno studente impreparato. Capita che annoti: “Qui lo scultore è stato tratto in inganno da una errata interpretazione del testo del Ripa”. Non mancano, da parte del puntiglioso professore, a tratti esasperato, espressioni di disappunto, come quando afferma, dopo aver analizzato la scultura dello Stratagemma militare, che “la conclusione del Pianta è, come al solito sconclusionata”.
Ma è anche troppo colto per non cogliere, in queste sculture iperrealiste, davvero inusitate nella storia della scultura decorativa barocca, un vero e proprio guazzabuglio iconografico, possibilità di lettura sorprendenti:

Invero se i discorsi del Pianta dovessero tradursi in discorsi in marmo, si avrebbero accozzaglie di parti non pertinenti, come statue antiche malamente integrate, o a modo di cadavres exquis. Una particolarità che dovrebbe renderlo interessante pei surrealisti.

Non manca nemmeno di riconoscere a Pianta aspetti di genialità, come nella figura della Spia collocata in prossimità della iperrealistica libreria in fronte all’ingresso della sala:

Anche la figura della Spia è conforme a quella del Ripa; di lì viene l’idea dell’intabarrato col cappello calato sugli occhi, con la lanterna e la scarpa di feltro, che il Pianta ha tradotto con grande efficacia, quasi che un medesimo vento furibondo investisse l’intabarrato tutto accartocciato in sé e il furibondo che dall’altro lato si divincola ignudo. Questo della libreria è uno degli angoli più espressivi dello spirito barocco, nel suo realismo e nella sua veemenza di sentimenti e atteggiamenti.

Praz, che sul Barocco in letteratura aveva riflettuto sino dal 1933 con Emblema, impresa, epigramma, concetto, e vi era tornato per le arti nel 1956 con Introduzione al Barocco, trova in questo e altri brani, la precisa chiave di lettura di questo spettacolare ciclo della scultura decorativa italiana, arrivando a cogliendovi – pur con un certo sforzo per lui amante del neoclassicismo – il valore intrinsecamente barocco:

I visitatori della Scuola di San Rocco a Venezia, attirati, a ragione, dall’artista maggiore, il Tintoretto, di solito si dimenticano, nella sala superiore, di gittare una pur fuggevole occhiata alle cornici di quei grandi quadri. Ma chi si degni di fissar l’attenzione sulle sculture in legno di Francesco Pianta, non può non rimaner colpito dalla loro astrusa bizzarria, dalla tecnica violenta e mista di rozzezza e di raffinamento. Fiasche, cannoni, catene, sporte, libri, maschere, teste d’asino, mutili piedi umani, leggii, stracci, pennelli, corde e martelli, boccali, strumenti musicali, che vuol dire tutto questo tutto questo bric-à-brac raccolto intorno a figure d’atleti e di dottori, di nudi e d’intabarrati, di monchi e di gagliardi, scolpiti in un legno caldo, patinato e crivellato d’innumerevoli tarli? Che appartenga al Seicento, è evidente, in qualsiasi altra età del passato, questa sarebbe stata l’opera di un pazzo. Ma nel Seicento, nel Seicento di Don Chisciotte e di Don Ferrante, c’è una razòn sin razòn, un method in madness. Se invece delle tele del Tintoretto, sopra questo zoccolo stranamente istoriato, ci avessero, ci fossero tele del greco, potremmo credere che dalle elucubrazioni di uno di quei pallidi e melanconici gentiluomini bigotti fosse stata suggerita questa teoria di enigmatici telamoni.

Certo il professore non dovette amare questo ciclo, anzi forse lo detestò, assieme al suo autore. Le ultime righe di queste pagine sono oltremodo significative:

È impossibile l’immaginare cose più ridicole di alcuni de’ suoi pensieri, ed io son sicuro che se gli fosse venuto in mente il modo di dire italiano pisciare nel vaglio per esprimere: gittar via il tempo e la fatica, avrebbe anche questo bel pensiero esposto in figure.

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