Iacobo Fiamengo e Giovanni Battista De Curtis. Stipo, 1597. Legno di abete impiallacciato in ebano e avorio.
Collezione privata
Nella Napoli di fine Cinquecento tra i maestri attivi nella costruzione di stipi intarsiati in ebano e avorio, vi fu un ebanista, riscoperto da Alvar González-Palacios[1], conosciuto con il nome di Iacobo Fiamengo. Non si conosce il cognome di questo maestro, che in tutti i documenti d’archivio oggi noti che lo riguardano è sempre e solo chiamato “Fiamengo”, dunque un artigiano proveniente da quella regione tra Belgio e Olanda, all’epoca sotto il dominio spagnolo di Filippo II. In quanto ebanista non è in grado di incidere gli avori inseriti nei suoi mobili, ragione per la quale deve ricorrere a maestri specializzati in quest’arte, con cui ha l’abitudine di stipulare dei regolari contratti, alcuni dei quali giunti sino a noi, preziosi per le notizie che ci forniscono[2]. Del 1596 è un contratto che lega Iacobo a un incisore, Giovanni Battista De Curtis, che s’impegna a incidere “de sua propria mano et non d’altra persona” storie del Vecchio Testamento su uno stipo.
Ad oggi sono noti quattro stipi frutto di questa collaborazione conservati in collezioni pubbliche. Tutti presentano incisioni tratte delle Storie di Romolo e Remo, ciclo di ventisei stampe di Giovanni Battista Fontana, edite tra il 1553 e il 1575.
Il primo, “preziosa antologia di motivi manieristici”, come lo ha definito il suo scopritore González-Palacios, è conservato al Museum für Kunst und Gewerbe di Amburgo. Esso reca in realtà due firme: quella di De Curtis e quella di un secondo incisore, “iannuuarius picicaro” al quale spetta il planisfero sul piano scrittoio estraibile. Se il primo sappiamo essere incisore grazie ai contratti stipulati con Iacobo Fiamengo, nulla sappiamo del secondo, probabilmente un maestro specializzato nell’incisione di planisferi e carte geografiche, ricorrenti in questo genere di mobili.
Il secondo stipo, oggi presso il Museum of Art di Philadelphia, è caratterizzato da bellissime grottesche intarsiate in avorio su fondo di ebano che adornano le superfici esterne, rappresentando uno dei più significativi esempi d’impiego di queste capricciose figurazioni nella storia del mobile cinquecentesco. L’interno è celato non dalle consuete due porte, ma da un’anta a calatoia su cui trova posto un planisfero, simile presente a quello di Amburgo probabilmente opera del già ricordato Gennaro Picicaro.
Presso il Victoria and Albert Museum di Londra si conserva il terzo stipo oggi noto, dalla tipica organizzazione compositiva della facciata, con capitelli corinzi, figure allegoriche e mensole con teste grottesche.
Il quarto stipo si conserva infine a Genova, presso il Palazzo del Principe. Datato 1616 è l’opera più tarda oggi nota di questo corpus. Il mobile fu purtroppo trasformato nel corso della prima metà del Settecento nell’alzata di un canterano, nel quale furono però fortunatamente inglobate le tarsie delle perdute ante.
A questo piccolo gruppo di mobili già noti eseguiti in associazione dai due maestri napoletani si aggiunge un quinto stipo, che De Curtis firma e data 1597[3]. L’esterno è completamente intarsiato con finissimi arabeschi, in avorio su fondo d’ebano e viceversa. L’ebanista dimostra di padroneggiare in modo superbo questo genere decorativo, e di conoscere le invenzioni di arabeschi incise da Virgil Solis (1514-1562), quelle del Livre de Moresques di Francesco Pellegrino (?-1552) pubblicato a Parigi nel 1546 e del Grotesken und Mauresken di Peter Flotner (1485-1546), stampato ad Augsburg nel 1549. Il mobile, superiormente completato da una cornice aggettante, poggia su un alto basamento costituito da un unico ampio vano, che originariamente conteneva una spinetta, usanza documentata in alcuni inventari seicenteschi e ancora in voga quasi un secolo dopo, come testimonia lo stipo romano eseguito del tedesco Giacomo Herman nel 1676, che conserva lo strumento firmato da Johannes Meiser e datato 1678[4]. L’impianto architettonico del fronte del palazzo interno è del tutto simile a quello del mobile ad Amburgo: cambia la proporzione tra i due ordini, a scapito del secondo, le colonne hanno capitelli dorici e scompare la trabeazione. Più imponente il portale centrale, caratterizzato da un timpano spezzato su cui trovano posto due figure femminili in avorio scolpite a tutto tondo. Ritornano le figure grottesche già incontrate nello stipo di Amburgo; rispetto a quello l’ornamentazione, ispirata ai medesimi repertori della grottesca, è più fitta.
Per quanto riguarda le placche istoriate, De Curtis incide, tra interno ed esterno, nove grandi scene tratte, dalle stampe di Bernardo Castello (1557-1629) per la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, stampata a Genova da Girolamo Bartoli nel 1590. Placchette quadrate, ovali e quadrilobate – con gustose figurazioni di piccoli paesaggi, scenette di caccia, teste di carattere, episodi d’arme – impreziosiscono la fitta tessitura “a rabeschi”. La firma di De Curtis si legge all’interno dell’episodio inciso sullo sportello centrale della facciata; la data, in numeri romani, compare all’apice dello stesso, celata sotto la chiave di volta del portale.
[1] A. González-Palacios, Giovanni Battista De Curtis, Iacobo Fiamengo e lo stipo manierista napoletano, in «Antologia di Belle Arti», II, n. 6, Maggio 1978, p. 136 e sgg. [2] G. Filangieri di Satriano, Documenti per la storia, le arti e le industire delle provincie napoletane, Napoli 1981, V, p. 156 [3] G. Beretti, Further investigations into the Mannerist Neapolitan cabinet, 1575-1621, in «Furniture History», LV, 2019, p. 38 e sgg. [4] A. González-Palacios, Bernini e la grande decorazione barocca, in M. G. Bernardini, M. Fagiolo dell’Arco, a cura di, Gian Lorenzo Bernini Regista del Barocco, catalogo della mostra, Milano 1999, p. 190