Tante e diverse sono le qualità che contraddistinguono i grandi saggisti; anche a una rapida scorsa (stando a chi mi è più caro), da Montaigne a Manganelli, passando per Lamb, Strachey, Orwell, Praz, Macchia, è possibile isolare in tali autori la capacità di creare relazioni inaspettate, come mossi da un demone per l’analogia che porta a squarci di verità illuminanti. Il tutto sempre detto con una leggerezza che appartiene più alla conversazione che al trattato. Questa capacità sicuramente apparteneva a Hugh Honour, che insieme a John Flaming, compagno di una vita, hanno scritto, splendidamente, pagine importanti e pioneristiche per la Storia dell’Arte.
In particolare a Honour si deve uno dei primi testi tradotti in italiano dedicato alla Storia del mobile: Cabinet Makers and Furniture Designers. Il libro è stato scritto nel 1969 e prontamente tradotto nello stesso anno da Elena Lante Rospigliosi, traduttrice anche di Goldsmiths & Silversmiths del 1971 (trad. it. Orafi e Argentieri, Arnoldo Mondadori 1972). Non che mancassero iniziative a riguardo, anzi l’editoria italiana viveva un momento particolarmente vivace e si dimostrava interessata ad accogliere le novità emerse dagli studi sulle arti decorative portandole ad un livello divulgativo, come la collana “Elite. Le arti e gli stili in ogni tempo e paese” diretta da Alvar González-Palacios e pubblicata da Fabbri. Queste iniziative si prefissavano il compito di estendere la conoscenza sulle arti decorative, compresa la storia del mobile, allora appannaggio di un ristretto gruppo di persone, fatto di restauratori, antiquari e dotti collezionisti. In che modo? Applicando i metodi propri, filologici, della Storia dell’arte per arrivare a un sapere più solido, storicamente documentato, condiviso.
Il testo di Honour, pur inserendosi in questi esempi di alta divulgazione, si presentava però con un taglio del tutto originale. Il libro come indicato nell’introduzione è innanzitutto una storia individuale, nata dalla curiosità dell’autore per le singole personalità protagoniste della storia del mobile. Perché in passato c’è stato un maggior interesse per le vite, non dico degli onnipresenti pittori, ma degli orafi o dei vasai? A questo quesito Honour confessa di non essere riuscito a trovare una risposta. Forse l’ha ipotizzata ma il suo empirismo tipicamente anglosassone lo porta a fermarsi di fronte all’evidenza dei dati, senza avanzare alcuna teoria sociologica, tendenza molto in voga in quegli anni.
Ciò che Honour marca appieno è che la storia del mobile fu condizionata dal ruolo assunto nel corso del tempo dal disegnatore. Grosso modo tutti terminavano la propria narrazione storica con la rivoluzione industriale vedendo in essa un momento di rottura: la fine del lavoro manuale a favore di quello meccanizzato. Ma non fu che un ulteriore passaggio di una situazione nata secoli prima, esattamente nel XVI secolo, quando cominciò a primeggiare l’aspetto disegnativo, l’invenzione. Da qui il titolo, Cabinet Makers and Furnitures Designers, che ben riassume due momenti di un unico percorso (sfumatura che purtroppo nella traduzione italiana si è persa). Anche se non è citato nel testo, in punta di piedi, si potrebbe aggiungere che a riprova di tale assunto basti rileggere le Vite di Vasari: i poveri intarsiatori alla luce degli avvenimenti del Cinquecento, sono ormai residui di un’epoca perduta che poco o nulla hanno a che fare con la nuova figura dell’artista, la cui genialità si esibisce in primis nel disegno.
Questa storia si dipana in tanti medaglioni, un susseguirsi di tanti “ritratti in miniatura” (come nell’opera di Lytton Strachey, vicina per stile, eleganza e intelligenza fulminea nei giudizi critici) che attraversano secoli e si muovono lungo tutta l’Europa.
Ovviamente un ruolo fondamentale è giocato dalla Francia: non a caso il primo medaglione è dedicato a Jacques Androuet du Cerceau, influenzato da soluzioni, in gran parte italiane, sorte dalla Scuola di Fontainebleau: “si era infatti appropriato senza ritegno degli eleganti disegni per argenteria di Perin del Vaga e di Hans Brosamer e delle delicate incisioni ornamentali di artisti italiani come Polidoro, Perin del Vaga e Agostino Veneziano”; tuttavia tali disegni “rivelano un horror vacui ereditato dalla pittura e dall’architettura tardogotiche” (pp. 28-29). Il contributo italiano per lo sviluppo di nuovi motivi decorativi non fu accolto solo in Francia, ma già nel primi anni del XVI era giunto nelle Fiandre per via dei stretti legami commerciali come nel caso di Hans Vredeman de Vries.
In altri casi la biografia di un autore, come nel caso di Hugues Sambin, è un’occasione per immergersi nella terminologia: Honour indaga i documenti all’interno delle corporazioni dei lavoratori del legno per capire i nomi e le differenze tra i primi menuisiers (falegnami) rispetto agli ébénistes (ebanisti). Il rango di questi ultimi fu però elevato da un italiano, Domenico Cucci, che lo portò al pari di quello assunto dai pittori e dagli scultori. I migliori mobilieri italiani erano anche scultori. Honour ritorna più volte su questo aspetto, a voler rimarcare un elemento caratterizzante della nostra produzione: come le opere di Brustolon così lontane dal gusto inglese, interessato affinché “le loro sedie e i lori tavoli abbiano l’aspetto di mobili piuttosto che di fantasie scultoree a fine più meno pratico” (p. 64).
Non mancano affermazioni piene di humor tipicamente britannico come: “gli orologi monumentali sembrano creati apposta per segnare le ore trascorse dai cortigiani a bighellonare nelle anticamere”. Viceversa l’autore non lesina giudizi sferzanti, come nel caso di Piffetti “le cui forme sono quasi esagerate, tutte curve, arrotondamenti panciuti […] il tutto ha carattere di affascinante ossessione, troppo ornato, prodotto di una fede cieca nell’esibizionismo, sia riguardo ai ricchi materiali sia al virtuosismo dell’esecuzione. Non si può fare a meno di pensare che per Piffetti, l’arte dell’ebanista consisteva non nel celare, ma nell’ostentare l’abilità tecnica.” (p. 101).
Honour riconosce ed evidenzia la necessità di inserire alcuni artisti, il cui contributo alla storia del mobile fu più che altro immaginativo che pratico, come nel caso delle invenzioni di Piranesi o delle metafisiche incisioni di Johann Jacob Schübler.
Lo studio dei documenti d’archivio permette di conoscere i risvolti economici, le relazioni personali, gli altalenanti legami con la storia politica, le fortune accumulate da questi maestri come nel caso di Charles Cressent, il cui successo gli permise di mettere insieme una notevole collezione di dipinti, con attribuzioni a Raffaello e ad altri maestri del Rinascimento, poi amaramente dispersa.
Per il mobile antico Honour fa tesoro delle ricerche fondamentali svolte da F. J. B. Watson o Pierre Verlet. Arrivando al XX secolo con il Movimento Moderno (Le Corbusier, Aalto, ecc…) guarda ai testi ormai classici di Pevsner e di Giedion. Gli ultimi medaglioni del libro, che chiude con Charles Eames (tratteggiato ovviamente insieme a Eliel Saarinen), sono permeati da riflessioni sulle conseguenze della meccanizzazione della società, lanciando al lettore strali d’ombra su un futuro per noi divenuto ormai quotidiano.
Dario Michele Salvadeo