Giuseppe Maggiolini, su progetto di Giocondo Albertolli e disegni di Andrea Appiani, Coppia di commodes, 1789
Legno di noce, abete e pioppo intarsiato in bois de violette, palissandro, pero, bosso, acero, acero tinto verde. Cariatidi e cornici in legno scolpito e dorato, grifoni e piedi posteriori in bronzo a patina verde, piani in marmo bardiglio.
Cellatica, Fondazione Paolo e Carolina Zani per l’arte e la cultura
Bibliografia:
C. Alberici, Il mobile lombardo, Milano 1969, pp. 186-187
A. Gonzàlez-Palacios, Il tempio del gusto. Il Granducato di Toscana e gli Stati settentrionali, 2 Voll., Milano 1986, I, p. 269
E. Colle, Modelli d’ornato per Giuseppe Maggiolini, in «Paragone», 65.1992, pp 82-83
G. Beretti, Giuseppe e Carlo Francesco Maggiolini, l’officina del Neoclassicismo, Milano 1994, pp. 158-161
G. Beretti, Andrea Appiani, i disegni d’ornato per il “bravo Signor Maggiolini”, in «Rassegna di studi e notizie», 22.1998, pp. 80-89
E. Colle, Le arti decorative, in F. Mazzocca, A. Morandotti, E. Colle, a cura di, Milano neoclassica, Milano 2001, p. 554
E. Colle, Il mobile neoclassico in Italia: arredi e decorazioni d’interni dal 1775 al 1800, Milano 2005, pp. 304-309
G. Beretti, Le commodes per la “sposa Busca” nel 1789, in G. Beretti, a cura di, Maggiolini al Fuorisalone, catalogo della mostra (Milano, Galleria San Fedele, 13-19 aprile 2015), Milano 2015, scheda 10
Nell’anno che vide in Francia i primi orrori rivoluzionari e la fine dell’Ancien-regime, l’officina di Giuseppe Maggiolini eseguì una coppia di commodes che sono indiscutibilmente il capolavoro di tutta la sua carriera, in grado di reggere il confronto con le migliori opere dei più famosi ebanisti europei del suo tempo. L’invenzione di questi mobili spetta a Giocondo Albertolli (1743-1839). La prova documentaria risiede in un appunto, dalla chiara grafia albertolliana, su uno dei sei disegni preparatori per le tarsie, oggi conservati nell’album Vallardi presso la biblioteca dell’accademia di Brera, che lascia intendere il suo ruolo di regista. Al piede del disegno per una delle tarsie si legge:
«Consegnato il 14 aprile 1789. Si raccomanda al bravo Sig. Maggiolini la miglior conservazione possibile dei disegni per poterli rimettere meno guasti che sia possibile. Se poi avesse bisogno di far correggere l’altro quadro grande lo mandi a Milano subito mentre il disegnatore fra quattro o cinque giorni passerà a fare un po’ di vacanza».
Chi fu il «disegnatore» che mise a punto i due disegni da intarsiarsi sulle facciate (l’altro disegno col «quadro grande» per il tableau della facciata di cui si parla nell’appunto è oggi perduto) non sappiamo con certezza. Forse si parla di Raffaele, figlio di Giocondo, a cui potrebbe graficamente essere attribuibile il disegno con l’iscrizione, che sarebbe tornato di lì a poco nell’aprile del 1789 “a fare un po’ di vacanza” presso il genitore a Milano – probabilmente in occasione delle festività pasquali di quell’anno. Non credo si parli di Andrea Appiani (1754-1817), cui spettano invece con certezza gli altri quattro disegni dell’album con giochi di putti destinati alle tarsie sui fianchi di questi mobili. Una derivazione di uno di questi, ancora tra le carte della bottega (Inv. C 154), servì a Maggiolini per l’intarsio del quadro presentato alla Società Patriottica di Brera per il concorso dell’anno 1788[1]. Di una gestazione assai meticolosa, come era nello stile di lavoro albertolliano, rimane anche testimonianza nelle riduzioni, con piccole variazioni, dei quattro disegni autografi dell’Appiani, messe a punto da Raffaele Albertolli e ancora conservate nelle carte del Fondo Trefogli di Torricella (Lugano). Su di una di queste si legge:
«Inventato e disegnato da Rafaele Albertolli / l’anno 1789 d’anni 19, diretto da suo padre Giocondo /da farsi d’intagliatura per comod della Mar.a Busca sposa»”.
Ecco ancora alle prese con questa commessa il giovane figlio di Giocondo, chiamato dal padre a realizzare dei chiari disegni utili per la traduzione in legno dei fogli di Andrea Appiani che, come tali, non si sarebbero potuti passare direttamente ai bravi artigiani di Parabiago. L’iscrizione non è del tutto veritiera, perché non si può dire che i disegni siano proprio invenzione di Raffaele, ma è interessante perché conferma la data 1789 e soprattutto ci fornisce un’indicazione precisa sul committente di questa straordinaria commessa. Ma su questo diremo oltre. Un sesto e ultimo foglio dell’album Vallardi a Brera, una prima idea di getto di quella che sarà la tarsia di una delle due facciate dei mobili, prova che i due quadri «in grande» – di cui uno ancora conservato con l’iscrizione autografa di Giocondo – sono anch’essi riduzioni del giovane Raffaele di idee originali dell’Appiani.
Purtroppo, a fronte di una documentazione così esaustiva per quanto concerne le figurazioni degli intarsi, sono totalmente assenti, sia nel Fondo Albertolli sia in quello Maggiolini, disegni, schizzi, anche solo appunti grafici relativi alla progettazione d’insieme di questi mobili, che certo richiesero una lunga messa punto progettuale. L’unico foglio conservato tra le carte maggioliniane che potrebbe essere messo in relazione a questa commessa, riguarda ancora le tarsie, in particolare il fregio con festoni sul cassetto a urna (Inv. B 4). Ma è un piccolo disegno, quasi un appunto.
Che Albertolli dovette avere parte anche nel progetto d’insieme di questi mobili è però evidente osservandoli. Si tratta infatti di commodes ispirate a grandi cassoni rinascimentali dal coperchio ad urna, finemente intarsiati con figurazioni mitologiche ispirate al tema dell’amore, ornati da minute cornici intagliate e dorate, fregi intarsiati di raffinato disegno e serrati ai lati da figure muliebri, anch’esse in legno intagliato e dorato, assai prossime a quelle che Albertolli aveva modellato in stucco nelle volte di palazzo Belgiojoso (poi incise alla tavola XIII e in dettaglio alla XV del volume del 1783). Sono invenzioni tanto raffinate quanto equilibrate queste due commodes; straordinarie per l’ambiente milanese, nemmeno ignare, come notò Alvar Gonzàlez-Palacios, di alcune delle migliori realizzazioni parigine Louis XVI – la commode di Riesener per la camera da letto di Luigi XVI a Versailles o il portagioie di Maria Antonietta di Swerdfeger oggi al Louvre – e tuttavia inconfondibilmente improntate al gusto per le forme d’insieme e per il buon ornato del Rinascimento che permea tutta l’opera albertolliana[2].
I fogli dell’album Vallardi e del Fondo Trefogli, con le loro iscrizioni permettono di datare con assoluta precisione questi mobili che, prima di questi ritrovamenti, risultavano, a causa della loro peculiarità, di difficile collocazione nella storia dell’officina di Parabiago.
Clelia Alberici, a cui si deve il ritrovamento di questi mobili presso la Villa Sola Busca di Tremezzo, sul lago di Como, ipotizzava una loro esecuzione in epoca Napoleonica[3]. Chi scrive li ripubblicò nel 1994, prima di ritrovare nel 1996 il disegno Vallardi con la data, ipotizzandone una datazione in epoca napoleonica soprattutto in virtù dei grifi in bronzo a patina scura sui quali i mobili poggiano. Gonzàlez-Palacios, nella prefazione a quel mio giovanile lavoro, non accettò però questa ipotesi, riscontrando nei mobili, a ragione, dei caratteri ancora spiccatamente Louis XVI. Ma Maggiolini, va detto, nei mobili di epoca Impero non perse mai quel carattere ancien-regime che rimarrà sempre la caratteristica, forse il limite delle sue opere ottocentesche.
Rivedendo i mobili dopo molti anni, e dopo il ritrovamento dei documenti, ho pensato alla possibilità che i grifi bronzei, e la pedana su cui questi poggiano, possano essere un’aggiunta più tarda. Rimane valida, dal mio punto di vista, la questione stilistica, ma soprattutto sono emerse anche delle questioni tecniche-costruttive che rendono inspiegabile simili piedi. Una per tutte: il cassetto inferiore – dal frontale decorato dal fregio a can fuggente – non può essere aperto a causa delle ali spiegate dei grifi. Forse i mobili nacquero con piedi diversi che poi vennero sostituiti con gli attuali? Non è questione sulla quale insistere in assenza di elementi certi, anche perché il tema ornamentale dei grifi, è ricorrente in Albertolli, come dimostrano gli alari pubblicati alla Tavola XVII di Alcune decorazioni di nobili sale nel 1787. Bisognerà accettare che la questione rimanga per il momento insoluta.
Piedi bronzei a parte, certa è l’esecuzione dei mobili nel 1789. L’appunto sul disegno di Raffaele Albertolli: «Marchesa Busca sposa» dice tutto. In quell’anno si celebrarono infatti le nozze tra Luigia Serbelloni (1772-1849), figlia del duca Gian Galeazzo, e il marchese Lodovico Busca Arconati Visconti (1758-1841). Giuseppe Beretta, nella sua biografia di Andrea Appiani, ricorda come il pittore, per la famiglia Busca Arconati:
«[…] lavorò anche un disegno eseguito da Maggiolini sopra una tavoletta, ed è una Cinzia tirata da veltri da me posseduto: disegno a penna in grande dimensione donato già dall’Appiani stesso al cavaliere Albertolli, venduto poscia all’epoca del suo decesso»[4].
Una Cinzia tirata da veltri è proprio una delle figurazioni mitologiche sulla facciata di una delle due commodes. E puntuale ecco che nella faccenda di questo disegno per il Maggiolini ricompare Albertolli. Ma che c’entra la “tavoletta” – che sta per toilette? – Forse Beretta fa confusione, siamo nel 1848; ci dà due informazioni buone, una terza sbagliata.
Stando così le cose, in assenza di altre prove documentarie, il committente andrebbe identificato con il marito di Luigia Serbelloni, il marchese Lodovico Busca che, proprio in questi stessi anni, intraprese alcuni lavori di ristrutturazione del palazzo di famiglia in fronte la chiesa di Santa Maria delle Grazie. E’ del giugno del 1788 la richiesta alla commissione edilizia, per poter intraprendere alcuni lavori all’interno del palazzo di famiglia in occasione delle nozze con la Serbelloni. In questo cantiere sappiamo furono attivi Giocondo Albertolli e Andrea Appiani che vi affrescò, verso il 1791, Psiche accolta nell’Olimpo. Albertolli incorniciò l’affresco dell’amico pittore in una delle sue complesse e cesellate volte a stucco, ancora oggi visibile nonostante le poco felici trasformazioni subite dal palazzo nel corso del XX secolo. Il marchese, come hanno dimostrato gli studi di Giovanni Battista Sannazzaro, fu non solo committente dell’Appiani in quest’occasione ma, in qualità di membro della Fabbrica di San Celso, sponsor del pittore nell’assegnazione del ciclo di affreschi della cupola di quella chiesa, oggi perduti. Un committente di riguardo del pittore spiega anche l’eccezionale impegno dell’Appiani per questi due mobili eseguiti da Giuseppe Maggiolini.
Secondo la memoria orale della famiglia già proprietaria dei mobili, questi ad un certo punto della loro storia trovarono posto in palazzo Serbelloni e fecero parte dell’arredamento della camera in cui fu ospitato Napoleone appena entrato in Milano nel maggio 1796, ospite di Gian Galeazzo Serbelloni, il “duca repubblicano” come fu soprannominato per i suoi entusiasmi filo-napoleonici. Qui rimasero sino ai primi bombardamenti su Milano della Seconda Guerra Mondiale quando furono trasportati nella più sicura villa di Tremezzo, sul lago di Como, dove Clelia Alberici li ritrovò e dove rimasero sino ad alcuni anni or sono.
[1] G. Beretti, Giuseppe e Carlo Francesco Maggiolini, l’officina del Neoclassicismo, Milano 1994, pp. 138 e sgg. [2] A. González-Palacios, Giuseppe Maggiolini: un capolavoro certo, uno incerto e vari appunti sui seguaci, in «Antologia di belle arti», n. 15-16, 1980, pp. 176 e sgg. [3] C. Alberici, Il mobile lombardo, Milano 1969, pp. 186 e sgg. [4] G. Beretta, Le opere di Andrea Appiani, Milano 1848, p. 102