Giuseppe Maggiolini, Secrétaire, 1790 ca.
Legno di noce e abete intarsiato in palissandro, bois de rose, mogano, acero, acero tinto verde, radica di noce, ciliegio, bosso e altri legni non correttamente identificabili. Cm 150x92x40
Collezione privata
Restauro Giuseppe Beretti, 2000
Bibliografia:
G. Beretti, Laboratorio, contributi alla storia del mobile lombardo, Milano 2005, pp. 70-79
“Maggiolini, non lo si vuole certo negare, utilizza in non poche occasioni motivi presi di peso dall’antichità (in alcuni casi trascrive nei suoi legni composizioni delle Antichità d’Ercolano), ma li aggiusta nei suoi mobili in modo tale che essi perdano ogni connotazione virile per diventare una sorta di bisbiglio arcadico”[1].
Quello degli scavi di Pompei ed Ercolano costituisce uno degli episodi salienti per lo sviluppo del gusto neoclassico destinato a dominare l’Europa per più di un secolo. Si può discutere quanta importanza ebbe nella riscoperta neoclassica dell’antico il Gout Grec della Francia dell’ultimo Louis XV, o il classicismo mai sopito del Settecento inglese, ma indiscutibile appare il ruolo svolto dall’interesse per le antichità archeologiche che si andavano riscoprendo a Napoli. Gli stessi sovrani napoletani ne erano ben consci, tanto che Carlo III, per meglio gestire la conservazione e la conoscenza degli scavi ercolanensi, organizzò, attraverso il ministro Bernardo Tanucci (1698-1783), l’Accademia Ercolanese.
A questa istituzione spettò il compito di curare la pubblicazione delle Pitture antiche di Ercolano uno dei testi fondamentali della cultura artistica europea settecentesca. L’opera, che illustra le pitture, le sculture e le decorazioni che andavano emergendo dagli scavi, conta otto volumi. I primi sei furono pubblicati tra il 1757 e il 1771, il penultimo nel 1779 e l’ultimo soltanto nel 1792. La sua diffusione, strettamente legata alla benevolenza reale, ebbe un impatto enorme sull’immaginario di pittori, decoratori e architetti dell’epoca, tanto che non mancarono le edizioni clandestine.
Sotto Ferdinando IV la Manifattura Reale delle porcellane, diretta da Domenico Venuti, si rifarà alle immagini delle Pitture antiche di Ercolano per realizzare alcuni dei più celebri servizi da tavola del secolo: il “Servizio Ercolanense” destinato al padre Carlo III in Spagna (1782), il “Servizio Etrusco” donato a Giorgio III d’Inghilterra nel 1787, e infine il servizio per Maria Amalia, duchessa di Parma, del 1790.
Anche Giuseppe Maggiolini fece la propria parte. Nel 1790 eseguì un secrétaire destinato agli appartamenti di “Sua Altezza Reale l’Arciduchessa”[2] presso la Villa di Monza, sulla cui facciata sono intarsiate vedute di rovine di chiara ispirazione ercolanense.
Il tramite tra i volumi delle Pitture antiche di Ercolano e l’officina di Parabiago fu Giuseppe Levati, che da quattro di quelle Tavole (e precisamente delle numero II, III, LII, e LIII del volume III) ricavò, con una certa libertà, dei d’après oggi conservati nel fondo Maggiolini (Inv. B 122 bis, 123, 124, 125), impiegati dall’ebanista in numerosi mobili.
Ritroviamo tre di questi disegni intarsiati in grandi medaglie circolari su facciata e fianchi di una credenza con piccola alzata già pubblicata da Giuseppe Morazzoni[3], stilisticamente vicina al mobile oggi a Stupinigi. Altro impiego di questi disegni riguarda un secrétaire oggi a Palazzo Reale presso la Soprintendenza ai Beni Archeologici e del Paesaggio di Milano[4].
Il mobile di cui si scrive, oggi presso una collezione privata dopo essere transitato sul mercato antiquario all’inizio del XXI secolo, presenta l’impiego di tre dei quattro disegni di Giuseppe Levati. Caratterizzato da una ricca decorazione, le figurazioni ercolanensi sono inserite al centro delle ante in grandi losanghe, inquadrate da riserve angolari nelle quali trovano posto chimere dalla lunga coda a sviluppo fitomorfo.
Struttura e decorazione ripetono quelle del mobile oggi a Stupinigi, con i pilastri angolari smussati e catene decorate da lunghi fregi; i pilastri sono qui superiormente completati da capitelli a foggia di mensola. Le tarsie sono caratterizzate da un cromatismo acceso, reso dal bois de rose e dal mogano per le incorniciature, dall’amaranto per i fondi delle figurazioni ercolanensi, e dal palissandro. Il luminoso acero ombreggiato nella sabbia arroventata fa la propria parte, come sempre nell’intarsio maggioliniano.
Più ricchi che nel mobile di Stupinigi sono i piedi, raccordati al corpo del mobile da un dado vistoso e intarsiato, ornati su due ordini da una doppia cordonatura intarsiata e completati inferiormente da scarpette in legno intagliato e dorato.
Rispetto al disegno di Giuseppe Levati (Inv. B 124)[5], la figurazione intarsiata nella losanga al centro dell’anta superiore, fu riprodotta in controparte, ma per il resto, si è già detto, in modo assai fedele. L’unica libertà che l’intarsiatore si prese riguarda un dettaglio minore, come gli svolazzi dei rami dei rampicanti sul rudere. L’obelisco in marmo al centro della scena è reso da una singola tessera di radica di noce ombreggiata. Modalità, quella di rendere le colonne di marmo con una tessera ombreggiata di radica di noce, presente anche nel quadro di Amore e Psiche, e nell’altro quadro eseguito nel 1783 dall’officina come donativo per Augusto Stanislao Poniatovski.
Fa da fondo a questa figurazione una campitura di amaranto, tanto fortemente colorato e luminoso quanto totalmente privo di quelle morbide sfumature che altri materiali, a volte impiegati in simili frangenti, Maggiolini ama utilizzare.
Due lunghe cartelle parallele costituiscono il margine superiore e inferiore dell’anta; dentro scorre un lungo tralcio di vite in legno d’acero su di un fondo di finissima radica di noce: motivo ornamentale proposto in numerosi disegni del Fondo maggioliniano (Inv B 673)[6], e che ritroviamo identico in una commode in collezione privata[7].
Le ante inferiori presentano la medesima organizzazione compositiva: la losanga è disposta verticalmente e nelle quattro riserve triangolari sono piccoli racemi terminanti in una protome leonina. Le figurazioni ercolanensi (Inv. B 122, Inv. B 125)[8] sono tradotte con fedeltà, non più in controparte, sul medesimo fondo d’amaranto.
Sui fianchi, a scandire la partitura, sono gli stessi fregi della facciata. Nelle due riquadrature trovano posto candelabre d’ampio respiro, anch’esse di gusto spiccatamente archeologico, stese su fondi di amaranto. Il motivo a meandro intarsiato sulla catena inferiore, del tutto intonato alle decorazioni di sapore archeologico, lo si ritrova spesso, sempre nella medesima posizione di margine inferiore, in numerosi mobili eseguiti a Parabiago. Si veda, ad esempio,il secrétaire per il Vicepresidente della Cisalpina, la commode con ribalta e alzata, già esposta alla Mostra commemorativa di Giuseppe Maggiolini del 1938[9], poi pubblicata da Giuseppe Morazzoni nel 1953[10].
Il particolare motivo che corre lungo la catena superiore, caratterizzato da una lunga sequenza di cilindri alternati a foglie d’acanto, non risulta impiegato in altri mobili conosciuti. Nemmeno se ne conserva il disegno preparatorio nel Fondo dei disegni di bottega.
Per quanto riguarda la datazione di quest’opera, essa può essere collocata in prossimità del 1790, anno che vide l’esecuzione del secrétaire oggi alla palazzina di caccia di Stupinigi, per gli evidenti punti di contatto tra i due mobili.
[1] A. González-Palacios, Il gusto dei principi: arte di corte del XVII e del XVIII secolo, Milano 1993, p. 347 [2] G. Beretti, Giuseppe e Carlo Francesco Maggiolini, l’officina del Neoclassicismo, Milano 1994, p. 110 [3] G. Morazzoni, Il mobile intarsiato di Giuseppe Maggiolini, Milano 1953, Tav. V [4] G. Beretti, Op. Cit., Milano 1994, pp. 114 e sgg. [5] G. Beretti, A. Gonzàlez-Palacios, Giuseppe Maggiolini, Catalogo ragionato dei disegni, Milano 2014, p. 116 [6] G. Beretti, A. Gonzàlez-Palacios, Op. Cit., Milano 2014, pp. 215-216 [7] Ivi., pp. 94 e sgg. [8] G. Beretti, A. Gonzàlez-Palacios, Op. Cit., Milano 2014, pp. 115-117 [9] Mostra commemorativa di Giuseppe Maggiolini, catalogo della mostra (Milano, Museo di Milano, novembre / dicembre 1938), Milano 1938, p. 27, Tav. III [10] G. Morazzoni, Op. Cit., Milano 1953, Tav. VI