Nella primavera del 1529 i rapporti tra Lorenzo Lotto (1480-1557), a quella data residente a Venezia, e il Consorzio della Misericordia Maggiore di Bergamo, committente del coro della Basilica di Santa Maria Maggiore con il quale il pittore si era impegnato nel 1524 a disegnare episodi del Vecchio testamento che Francesco Capoferri (1498ca.-1534) avrebbe intarsiato in legni policromi, sono ormai definitivamente deteriorati. Le incomprensioni: i ritardi nei ritiri dei disegni pronti e dei pagamenti di quelli che Lotto spedisce a Bergamo – un gran numero di offensive meschinità che i committenti gli riservano e soprattutto la mancata restituzione dei disegni già impiegati – lo mandano su tutte le furie, come le lettere ancora conservate presso l’archivio dell’istituzione testimoniano:
“Et el mio lungo et fidel servir merita ristoro ozi mai tanto quanto li poveri vostri et più per essere mercenario de le proprie fatiche […] par a voi che il fato mio sia una favola et non pensate che ve ne portate peccato sopra de voi.”
Ciò nonostante continua, anche se controvoglia e con gran fatica “per aver la mente molto travagliata”, a disegnare gli episodi necessari al completamento del ciclo. A margine di una lettera, datata 28 marzo 1529, in cui annuncia la spedizione a Bergamo di due “quadri piccoli coloriti con una parte della Storia di Sansone”, Lotto ci fornisce un’informazione di un certo interesse, relativa alle caratteristiche della verniciatura finale delle bellissime tarsie in legni policromi che Capoferri ha già terminato. Si tratta di un argomento interessante per gli studi di storia delle tecniche artistiche, oggi difficile da indagare. Utile però soprattutto per farsi un’idea sufficientemente precisa dell’aspetto originale di queste opere, giunte a noi sciupate dal tempo. Scrive Lotto, in un italiano Volgare con inflessioni venete al suo interlocutore della Misericordia:
“De le vesiche de vernice io di presente non posso perder tempo andar per botega cercando et farne la prova di esse perché el bisogna consumar tempo et io di presente non posso. Maestro Io. Francesco mi perdona, se non harà pressa mi avisa de novo con il memoriale del la quantità de le libre, perché sono molto falace. Tale sono belle in vista che non fano l’efecto in opera et le scure fano cioè disseccature meglio: siché non de poca importanza serà con perdita di tempo cercarle e provarle che al presente non posso. Fate la scusa et el tempo sia avisato di questa cosa che sarà servito; et ultra la spesa, si farà lui taglia de recompensato cambio del mio tempo. Le vernici de ambra, bone intendo, costano sul contorno di tre marcelli d’arzento.”
Che al tempo gli intarsiatori utilizzassero vernici “da pittore”, è noto da qualche documento d’archivio in cui si fa cenno proprio al lavoro di pittori e doratori chiamati a completare le opere lignee comprendenti tarsie. E’ il caso del coro di Arduino di Baiso per il Duomo di Ferrara, che sappiamo fu verniciato e in parte dorato nel 1447 da un oggi ignoto pittore di nome Michele Ongaro. Ma non si tratta mai di notizie circostanziate relative alla natura della vernice. Interessante in tal senso è invece la lettera di Lotto al quale Capoferri, tramite un consigliere della Misericordia, aveva chiesto di procurargli a Venezia della vernice d’ambra, proprio una di quelle usate dai pittori per la verniciatura finale dei dipinti a olio, che certo egli sapeva dove acquistare. Occorre però valutare bene le diverse vernici disponibili sul mercato, risponde Lotto, provarle e vedere che non si rivelino difettose. Si tratta di un vero e proprio lavoro e il pittore, visti i rapporti con i committenti che gli lesinano i pagamenti, lo dichiara senza giri di parole, non ha voglia “di consumar tempo”. Si tratta di una piccola ripicca: che aspettassero, e se lui dovesse dimenticarsene – perché la sua memoria è “molto falace”- lo chiedessero una seconda volta, e allora “Maestro Io. Francesco sarà servito”.
Nel marzo 1529 l’intero ciclo era ben lungi dal completamento, ma l’intarsiatore era evidentemente ansioso di verniciarle prima che, con il passare del tempo, l’aria ne alterasse il delicato equilibrio tonale. Sembra poi di capire dalla lettera, e non si tratta di un dettaglio irrilevante, che Capoferri desiderasse una vernice “scura”, la più difficile di trovare a Venezia di buona qualità. Una simile verniciatura, che doveva conferire un tono leggermente umbratile e dorato nel rispetto della luminosità dei legni, delle scelte tonali e coloristiche, era evidentemente ritenuta a quel tempo una caratteristica estetica irrinunciabile delle migliori tarsie.
Bibliografia:
L. Chiodi (a cura di), Lettere inedite di Lorenzo Lotto, Bergamo, 1962
F. Cortesi Bosco, Il coro intarsiato di Lotto e Capoferri per Santa Maria Maggiore a Bergamo, Bergamo, 1987